Ma tra i porporati “amici” non c’è il
cardinale Poletti, che ha autorizzato la sepoltura del boss della Magliana
nella basilica di Sant’Apollinare. Gli “amici” che ricorda: Giulio Andreotti e
i fratelli Vitalone (giudice e ministro)
Rispetto ad altri personaggi, divenuti vere e proprie
icone come se fossero dei califfi dello
star system criminale, il suo per anni è stato un nome meno conosciuto al
grande pubblico dei media. Nemmeno dopo essere diventato il Secco nel “Romanzo
criminale” di Giancarlo De Cataldo, Enrico Nicoletti, nato nel 1936 a Monte San
Giovanni Campano, in provincia di Frosinone, aveva abbandonato del tutto il
ruolo defilato che si era scelto, per quanto tutt’altro che defilato fosse il
ruolo che gli riconoscevano anni di indagini, processi e richieste di condanna
(alcune arrivate e passate anche in giudicato). L’uomo che oggi lotta
attraverso i suoi avvocati perché gli vengano restituiti gli oltre cento
milioni di euro confiscatigli, colui che è passato agli annali della cronaca
giudiziaria italiana come il cassiere della banda della Magliana, nelle ultime
settimane ha accettato di rispondere alle domande dei giornalisti in due
occasioni.
La prima ha coinciso con un colloquio con Gianluca di
Feo e Gianni Perrelli, colloquio riportato dall’Espresso dell’8
aprile 2010, e la seconda invece un’intervista del 16 aprile che l’inviato Pino
Scaccia ha realizzato per Tv7, la rubrica di approfondimento del Tg1. E sul
blog del giornalista Rai, dove segnalava la messa in onda della “verità di
Enrico Nicoletti” (si veda questo indirizzo: http://latorredibabele.blog.rai.it/2010/04/16/la-verita-di-enrico-nicoletti/), colpiscono un paio di commenti, entrambi firmati
solo “Raffaella” e “Marco”, senza cognome o altro segno di identificazione. Se
il primo esprime riprovazione contro la «misera gente senza cognizioni a
giudicare», tutti e due calcano su un punto: la magnanimità con cui l’ex re dei
palazzinari romani ha sempre trattato chi aveva bisogno di aiuto.
Ma chi è in effetti Enrico Nicoletti? Partendo dalla
fine, se si guarda al passato recente, ai tempi dello scandalo dei “furbetti
del quartierino” lo si metteva in relazione con il costruttore Danilo Coppola,
in seguito condannato per bancarotta fraudolenta. E c’è chi – come il
giornalista di Repubblica Carlo Bonini – lo descrive come comprimario di una
nuova mala romana. Un’organizzazione che, svestiti i panni dei gangster della
Magliana, sarebbe confluita del tutto nel mondo della finanza e della politica,
prosperando con i relativi proventi (e il sospetto è che in questi giri siano
finiti anche i quattrini che avrebbero dovuto alimentare le stecche destinate
alle famiglie degli ammazzati e dei carcerati, come prassi malavitosa avrebbe
voluto). Ma da questo punto di vista le indagini potranno dire quanto c’è di
fondato in questa ipotesi investigativa.
Sta di fatto che oggi il Secco prende
la parola per sfatare quelle che ritiene leggende ormai sedimentate sul suo
conto. Afferma così che della Magliana non ha mai toccato un soldo: non sapeva
della sua esistenza e dunque non poteva esserne il cuore economico. E aggiunge
che ben due papi (Wojtyla e Ratzinger), oltre a una serie di porporati, gli han
voluto bene (e lui, da cattolico osservante, li ha ricambiati tutti). Tra
questi però non ci sarebbe stato il cardinal Ugo Poletti, colui che autorizzò
la sepoltura del boss della Magliana Enrico De Pedis, detto Renatino, nella basilica di Sant’Apollinare, tra prelati e un
compositore barocco del diciassettesimo secolo. Men che meno Nicoletti avrebbe
avuto rapporti con Renatino, il Dandy di De Cataldo, se si escludono i servizi che
quest’ultimo gli rendeva in carcere, tra cui fargli il caffè o lavargli la
biancheria. Servizi ricambiati quando il boss ebbe bisogno, come quella volta
che gli chiese un prestito di grosso modo 200 milioni di lire per l’acquisto di
un ristorante, prestito regolarmente restituito – afferma – per tramite
notarile.
Ma sulla fedina penale dell’ormai anziano
imprenditore, come si definisce, pendono alcune condanne. Tra queste una
risalente al 1992 e confermata di recente a quattro anni di reclusione per
estorsione, e un’altra, di tre anni e mezzo, per i rapporti intercorsi con la
Magliana. Per il giudice Otello Lupacchini, inoltre, «Nicoletti funziona[va]
come una banca, nel senso che svolge[va] un’attività di depositi e prestiti e
attraverso una serie di operazioni di oculato reinvestimento moltiplica[va] i
capitali investiti dell’organizzazione».
Già proprietario della villa romana di via Porta
Ardeatina che, una volta confiscata, è diventata la Casa del Jazz, Enrico
Nicoletti viene dal basso e si affaccia alla vita adulta vestendo la divisa di
carabiniere. Ma la sua vera carriera non contempla stellette militari e inizia
ormai quasi mezzo secolo fa facendo fruttare il denaro affidatogli da gente del
suo quartiere, Centocelle. A lui si rivolge anche il già citato Flavio Carboni
(http://domani.arcoiris.tv/?p=3277) e, dopo gli esordi della borgata, arriva a far
circolare un sacco di denaro con prestiti dagli interessi esorbitanti e a
maneggiare assegni dello Ior, l’Istituto per le opere di religione vaticano,
passando per concessionarie d’auto che gli procurano denunce varie. Ma ciò non
gli ha impedito di coltivare amicizie con magistrati (come Claudio Vitalone, ma
anche con suo fratello Wilfredo, di professione avvocato), politici
democristiani e socialisti di primo piano (da Giulio Andreotti a Salvo Andò) e
uomini di tonaca.
Le conoscenze altolocate non cancellano però il fatto
che parte del denaro che Nicoletti maneggiò proveniva dal gruppo dei Testaccini
perché fosse ripulito. A presentarlo alla “bandaccia” capitolina era stato
negli anni settanta Danilo Abbruciati – morto nel 1982 durante il tentato
omicidio di Roberto Rosone, vicepresidente del Banco Ambrosiano di Roberto
Calvi –, ai tempi del clan dei Marsigliesi di Albert Bergamelli. In quel
periodo e ancora nel decennio successivo, sor Enrico – come Nicoletti era chiamato – è entrato e uscito dal
carcere più volte per reati che da minori sono andati in un crescendo arrivando
a comprendere il sospetto che fosse il mandante di un delitto.
Anche dopo il tracollo della mala romana d’inizio anni
Ottanta, Nicoletti aveva continuato ad avere rapporti con De Pedis, per quanto
nel periodo che precedette l’omicidio di Renatino fosse stato allontanato dalla cerchia dei fidati. Un
po’ per un’intemperanza di Tony, uno dei quattro figli di Nicoletti (finito
qualche anno fa con il fratello Massimo nel mirino della magistratura
napoletana per presunti rapporti con i casalesi), di fronte a un debito di
gioco da saldare: per evitare di pagare, aveva sbruffoneggiato minacciando
l’intervento di De Pedis e sperando di intimidire i creditori. Un altro po’
anche per la mancanza d’azione che l’uomo d’“affari” aveva nell’investire il
denaro del boss.
Ma Nicoletti, per il fisco, è arrivato quasi a non
esistere. Dichiarò poco più di 400 mila lire nel 1990, l’anno in cui De Pedis
morì, salvo poi essere trovato in possesso dalla guardia di finanza di una
ventina d’auto, di cui diverse di lusso, natanti, case, appartamenti e negozi.
Tutta roba non intestata a lui, che giocava la carta del nullatenente al punto
da chiedere aiuto alle strutture pubbliche.
Eppure erano diventate innegabili le amicizie con i
banchieri che operavano in filiali di comodo della Cassa di risparmio di Roma e
in quella di Rieti. C’erano poi le compravendite immobiliari, come quella
dell’attuale Casa del Jazz, acquistata dal Vaticano, e le aste fallimentari,
dove investimenti modesti facevano prosperare speculazioni del mattone a spese
anche del pubblico, come nel caso del contratto con l’università di Tor Vergata
e relative (quanto provvidenziali) modifiche ai piani regolatori. C’era l’idea
di abbracciare il business dei casinò aprendone di nuovi e c’erano anche i
rapporti con persone del calibro di Ciro Maresca, il figlio di Pupetta, donna
d’onore della camorra, e di Alvaro Pompili, l’usciere del ministero della
sanità dove la Magliana e i Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR) di Valerio
Fioravanti e Francesca Mambro avevano la loro santabarbara.
Ma tutto ciò, a sentire le dichiarazioni più recenti
dell’ormai anziano “imprenditore” – eco di quanto disse in tribunale fin dal
1996 e che ribadì ancora ai giornali nel 2005 e nel 2008 –, era tutta colpa dei
giudici “comunisti” (come s’era presa l’abitudine di affermare fin dalla
seconda metà degli anni Settanta, quando i guai giudiziari piombarono addosso a
un altro protagonista della storia criminale italiana, Michele Sindona).
Questa dunque è la storia di colui che si presenta
come un pensionato che vive della magnanimità dei conoscenti pur avendo potuto
permettersi, negli anni Ottanta, di snobbare la famiglia Caltagirone e di
rifiutare raccomandazioni a Giuseppe Ciarrapico. Colui che mise mano al
portafogli quando si trattò di mettere insieme il denaro per liberare Ciro
Cirillo, l’assessore ai lavori pubblici della Regione Campania sequestrato
dalle Brigate Rosse, e che poté permettersi – dice – di togliere il suo
appoggio alla corrente andreottiana per affidarsi a quella di Vittorio
Sbardella, dopo l’omicidio di Salvo Lima, ucciso a Palermo nel marzo 1992 da un
commando di cosa nostra, tradita dai suoi referenti politici.
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