martedì 31 luglio 2012

Sanatoria catastale, al via l’anagrafe immobiliare integrata


Servizio sperimentale attivo in 117 Comuni, non più separate le banche dati catastali e ipotecaria


Nuove risorse per la sanatoria catastale e gli accertamenti nel settore immobiliare. Da giovedì scorso è operativa in via sperimentale l’anagrafe immobiliare integrata, servizio che consente la consultazione integrata delle banche dati catastali e ipotecaria.

La novità, comunicata dall’Agenzia del Territorio, è disponibile in 117 comuni e renderà possibile l’acquisizione di informazioni dai due archivi, nati e gestiti storicamente in forma separata.
 
Con l’anagrafe immobiliare integrata, istituita nel 2010 dalla manovra 
per la stabilizzazione finanziaria e la competitività economica, si mette a disposizione della trasparenza e del governo del territorio una nuova infrastruttura informativa che integra i dati , ipotecari e catastali gestiti dall'Agenzia del Territorio.
 
Come riferito dall’Agenzia del Territorio, su questa infrastruttura è possibile sviluppare nuovi servizi per la creazione di un moderno sistema inventariale a supporto del governo del territorio.
 
Ricordiamo che la sanatoria catastale è stata introdotta dalla manovra del 2010, che ha avuto come obiettivo l’emersione degli “immobili fantasma” non dichiarati al Catasto, ed è stata preceduta da una serie di rilievi e fotografie aeree avviati a partire dal 2007.
 
La sanatoria catastale ha indagato tutte quelle situazioni in cui eventuali costruzioni o modifiche non erano state dichiarate, evitando così il pagamento di tasse maggiorate. Diversa è invece l’indagine sulla regolarità dei permessi, che rientra nelle competenze dei Comuni.
 
Ricordiamo inoltre che il riordino della materia si ripercuote nelle compravendite e nelle locazioni degli immobili. Per stipulare contratti di compravendita e affitto di edifici iscritti al catasto edilizio urbano, i dati catastali devono infatti essere allineati a quelli dei registri immobiliari.




In arrivo una legge per limitare il consumo di suolo agricolo


Obiettivo: tutelare le aree agricole, il paesaggio e l’ambiente. Finanziamenti e detrazioni Irpef per il recupero dei nuclei abitati rurali



Valorizzare le aree agricole, tutelare il paesaggio e l’ambiente, limitare il consumo di suolo, promuovere uno sviluppo equilibrato delle aree urbanizzate e delle aree rurali. Sono questi i punti fondamentali di una  proposta di legge presentata dal Ministro delle Politiche agricole Mario Catania.

L’azione principale del ddl è quella di fissare con un decretol’estensione massima di superficie agricola edificabile sul territorio nazionale, tenendo conto dell’estensione e della localizzazione dei terreni agricoli rispetto alle aree urbane, dell’estensione del suolo già edificato, dell’esistenza di edifici inutilizzati, dell’esigenza di realizzare infrastrutture e opere pubbliche e della possibilità di ampliare quelle esistenti, invece che costruirne di nuove. La superficie agricola edificabile verrebbe ripartita tra le diverse Regioni e tra i Comuni.
 
Un apposito Comitato avrà il compito di monitorare il consumo di superficie agricola sul territorio nazionale e il mutamento di destinazione d’uso dei terreni agricoli, e di realizzare, entro il 31 dicembre di ogni anno, un Rapporto sul consumo di suolo in ambito nazionale.
 
Il ddl prevede, inoltre, il divieto per i terreni agricoli che hanno ricevuto aiuti di Stato o comunitari, di cambiare ladestinazione agricola per dieci anni dall’ultima erogazione, pena una multa da 5.000 a 50.000 euro e la demolizione delle opere eventualmente costruite.
 
L’articolo 4 attribuisce priorità nella concessione difinanziamenti statali e regionali in materia edilizia ai Comuni e alle Province che recuperano i nuclei abitati rurali, con la ristrutturazione degli edifici esistenti e la conservazione ambientale del territorio. La stessa priorità varrà per i privati, singoli o associati, che intendano recuperare edifici nei nuclei abitati rurali.
 
I lavori di ristrutturazione e restauro, se subordinati al permesso di costruire, possono beneficiare di una riduzione del contributo di costruzione e di una detrazione Irpef del 50% fino ad un massimo di spesa di 350.000 euro.

“Ogni giorno 100 ettari di terreno vanno persi, negli ultimi 40 anni parliamo di una superficie di circa 5 milioni. Siamo passati da un totale di aree coltivate di 18 milioni di ettari a meno di 13” ha detto ilMinistro Catania nel corso dell’evento ‘Costruire il futuro: difendere l’agricoltura dalla cementificazione’ durante il quale è stato presentato il disegno di legge.
 
“Nel corso della storia - ha spiegato il Ministro - si sono alternate epoche in cui la campagna ha vissuto dei momenti di splendore e dei momenti di abbandono. In epoca recente, in questa alternanza, si è inserito un fattore che ha reso il consumo del suolo un processo irreversibile: la cementificazione”. “La sottrazione di superfici alle coltivazioni abbatte la produzione agricola, ha un effetto nefasto sul paesaggio e, di conseguenza, sul turismo”.
 
“Serve una nuova visione economica, un diverso modello di sviluppo - ha detto http://www.edilportale.com/news/2012/07/ambiente/in-arrivo-una-legge-per-limitare-il-consumo-di-suolo-agricolo_28917_52.html

giovedì 26 luglio 2012

Il coraggio di Rita Atria



A 20 anni dal suicidio, ricordiamo l'audace e triste storia di una ragazza siciliana 17enne che, sospinta dall'incessante amore quasi paterno del giudice Paolo Borsellino, ha perduto tutti gli affetti più cari, assegnando alla giustizia autorevoli mafiosi che dominavano nel suo paese da decenni




di ENZO DELLA CROCE - 26 Luglio 2012




Non è una storia che si racconta, si narra, si ascolta ogni giorno; non capita spesso di ritrovare un' impavida ragazza, nemmeno maggiorenne, disposta a collaborare consentendo, attraverso la sua testimonianza, di assicurare alla giustizia dei mafiosi che, per decenni, hanno spadroneggiato e terrorizzato la sua città, Partanna, piccolo centro abitativo nella provincia di Trapani, che conta grosso modo 10mila residenti.


Questa ragazza si chiamava Rita Atria; la sua è una storia intrinseca: figlia di Vito Atria e sorella di Nicola, entrambi mafiosi, fin dalla nascita la sua vita è stata attorniata da personaggi della malavita e della criminalità organizzata siciliana, la cosidetta "Cosa Nostra".


Ma cosa ha portato Rita a scrutare in profondità dentro se stessa e compiere un passo così difficile e drammatico per la sua breve esistenza?


Nata a Partanna il 4 Settembre 1974, a soli 11 anni il destino la sottrarrà dall'affetto di suo padre, ucciso per un regolamento di conti dalla Mafia di cui, come già anticipato, era importante esponente nella cittadella siciliana.


Un esimio legame d'amore e di fiducia univa padre e figlia, come tanti genitori con la corrispettiva prole; ma questo è un legame particolare, tanto da consentirne la presenza, ogni qual volta, suo padre incontra i suoi cosidetti "amici" ed "amici degli amici".


La stessa impercettibile affinità nasce, all'indomani della morte del genitore, con suo fratello Nicola, a tal punto da ricevere considerevoli confidenze sugli affari, gli intrecci e le dinamiche mafiose del suo paese natale e di residenza.


Passano solo pochi anni e, la Mafia riserva a Nicola lo stesso trattamento serbato al padre Vito per le identiche ragioni.


Rita è disperata, angosciata, si sente sola; al mondo le restano solo sua madre e sua cognata, Piera Aiello, vedova del fratello Nicola.


Anche Piera è sconvolta, stravolta dal dolore, scossa, turbata; questa sofferenza la conduce a compiere una scelta insidiosa, per quella che era la sua vita fino al giorno della scomparsa del marito; si reca alla procura di Palermo dove conosce un giudice, premuroso, affidabile, disponibile ad ascoltare la sua testimonianza; quel magistrato si chiama Paolo Borsellino.


Piera è talmente folgorata dalla determinazione e dall'umanità di quel magistrato, che riesce a trasmetterle fiducia, a tal punto da convincere sua cognata Rita a fare altrettanto.


Ma non sarà facile affrontare questa scelta, specialmente per quelle che saranno le conseguenze nella sua brevissima esistenza; difatti, la madre non condivide, non approva la scelta della figlia e di sua nuora, fino ad arrivare a disconoscerle entrambe per sempre.

Ma entrambe, impavide e temerarie, proseguono e raccontano tutto ciò che sanno al dott. Borsellino.

Rita sente che di quel rappresentante della giustizia può fidarsi e, con il passare del tempo, tra i due questa sintonia si trasforma in un meraviglioso sodalizio, pari a quello di un padre nei confronti di sua figlia. Quel giudice è l'ultima persona che le resta al mondo.

Con lo scorrere del tempo, Rita, in conseguenza della sua collaborazione con la giustizia e con Paolo Borsellino, verrà lasciata anche dal fidanzato, affiliato di Cosa Nostra.

Ma non demorde, perchè l'amore paterno di quel magistrato le da forza per proseguire quel tortuoso cammino che, assieme a sua cognata, ha deciso di intraprendere.

Per timore verso la sua incolumità e sicurezza, il giudice Borsellino trasferisce Rita in un appartamentino a Roma in Via Amelia.

E' sola li in quelle mura, ma i contatti con Borsellino sono così serrati, che i due si telefonano ogni giorno; anche se la distanza li divide, quel meraviglioso rapporto li unisce; oramai, Paolo Borsellino si figura, nel suo cuore, talmente da riempire quel vuoto che la scomparsa del suo genitore naturale aveva provocato.

La testimonianza di questa "picciridda" (come amava denominarla Borsellino) appena 17enne, coniugata a quella di sua cognata Piera, è decisiva per incriminare tutti quei mafiosi che, per mezzo di quel potere criminale, avevano brutalmente deturpato la sua città.


Purtroppo, però, arriva quella maledetta domenica del 19 Luglio 1992; quel magistrato buono, gentile e affettuoso, Paolo Borsellino viene brutalmente ucciso assieme a 5 uomini della sua scorta da un'autobomba contenente tritolo piazzata in Via d'Amelio, a Palermo dove vive sua madre al quale si recava settimanalmente a far visita.


La notizia getta nel panico Rita, tutta sola, triste, disperata ed angosciata in quell'appartamento romano; quell'uomo buono, divenuto col tempo la sua unica famiglia, non c'era più; era andato via per sempre.


Col trascorrere dei giorni comincia a meditare il terribile pensiero che per lei non esista via d'uscita e, appena una settimana dopo la strage di Via d'Amelio, Rita entra nel terrazzo del suo appartamento e decide di togliersi la vita gettandosi nel vuoto; era il 26 Luglio 1992, esattamente 20 anni fa.

L'esempio che la brevissima esistenza di questa audace, coraggiosa e speranzosa ragazza ci ha lasciato è racchiuso e narrato perfettamente in una pagina del suo diario che riporto:

"Forse un mondo onesto non esisterà mai; ma se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo"

Ragazzi vogliosi di giustizia, fatto tesoro come tanti della storia di Rita, hanno deciso di fondare un'associazione di carattere umanitario, anteposta a tutte le forme di criminalità organizzata, intitolata a suo nome e presieduta da sua cognata Piera Aiello che, in nome di Rita, prosegue questa battaglia iniziata un ventennio fa; la sua forza d'animo, la tenacia, ma anche la fragilità di questa 17enne sicula, devono essere d'esempio per tutti quelli individui che abitano non solo la nostra nazione, ma il mondo; ognuno di noi può trarne un'importante insegnamento:

non smettiamo mai di ricercare la verità, la felicità; diffidiamo da quelli individui che ci indicano sempre la via più facile e breve da seguire perchè, quando intraprendiamo il tortuoso e tumultoso cammino della vita, le vie da seguire devono essere quelle con i maggiori ostacoli; bisogna affrontarle e non ritirarsi mai, anche nei momenti di sconforto; dobbiamo continuare a correre. Il messaggio che ci ha lasciato e trasmesso Rita è ci indica che un mondo migliore esiste per davvero; non è un'illusione, un sogno irrealizzabile; i sogni si realizzano quando, tutti insieme, ci convinceremo che i principi sani della vita, vale a dire l'onestà, la giustizia, la libertà, la fratellanza, la solidarietà ecc...sono le uniche fonti di vita di ogni singolo individuo.   











  

Efficienza energetica, la termografia mette a nudo l’involucro edilizio



di ENZO DELLA CROCE - 26 Luglio 2012



Per analizzare un manufatto, una porzione di esso o un materiale (sia in ambito edile sia industriale) è necessario distruggerne una piccola porzione eseguendo un carotaggio di una determinata struttura (in edilizia) o il prelievo di un frammento di un pezzo meccanico (in industria) al che, prelevato un campione quantitativamente sufficiente all’indagine, si procede con la sua successiva analisi in laboratorio con gli idonei metodi e strumenti del caso.

La moderna tecnica ed il progresso scientifico, ci vengono in aiuto con le “P.N.D.” (prove non distruttive) definibili anche “C.N.D.” (controlli non distruttivi).

Queste analisi, mirano ad esaminare con differenti metodi, impiegando protocolli d’indagine codificati e standardizzati le caratteristiche di manufatti o materiali senza doverli alterare prelevandone porzioni o compromettendone la forma e/o la quantità di materia che li compongono.

Per completezza di trattazione, va detto che tra le metodologie di P.N.D./C.N.D. sono citabili, in riferimento alla UNI EN 473 / ISO 9712, le seguenti :
PT – Liquidi penetranti: si basa sull’esaltazione della visibilità di difetti superficiali mediante contrasto cromatico tra una sostanza liquida che penetra per capillarità nei difetti (penetrante) ed uno sfondo (rivelatore).
-  RT – Radiografia: comprendente i sistemi Raggi X e Raggi gamma.
-  UT – Ultrasuoni: tecnica che fa impiego di onde acustiche ad alta frequenza (nell’ordine dei MHz per i materiali metallici, dei kHz per materiali più eterogenei quali quelli lapidei ed i conglomerati cementizi), e che comprende anche la metodologia TOFD (time of flight diffraction ultrasonics).
- ET – Correnti indotte: tipologia di controllo basato sullo studio della variazione di impedenza di una bobina in funzione del campo magnetico indotto.
ECT – Eddy-current testing: test che si basa sull’esame delle correnti parassite indotte mediante un campo magnetico alternato.
- VT – Visual test: sistema di controllo visivo.
- MT – Magnetoscopia: verifica delle alterazioni di flusso del campo magnetico in prossimità della superficie del particolare posto sotto esame.
- AT – Emissione acustica: sistema per l’identificazione di propagazione delle difettologie.
- TIR (o TT) – Termografia: analisi della risposta termica in presenza di discontinuità del materiale.

Abbiamo recentemente appreso dai media la notizia circa la criticità nella tenuta termica dell’involucro riscontrata tramite termografie ad infrarossi effettuate da Legambiente sui nuovi edifici appena ricostruiti a l’Aquila dopo il sisma ( vedi http://www.ediltecnico.it/8429/tutti-in-classe-a-le-termografie-bocciano-anche-gli-edifici-de-laquila/)

Molti di noi, in quanto tecnici, sapranno certamente cosa sia indicativamente un termogramma e cosa esso metta in risalto (le differenti temperature di parete sono evidenziate da colori diversi), però sulla disciplina vi è ancora grande incertezza e troppa “aura leggendaria” dovuta soprattutto alla scarsità e frammentarietà di informazioni veicolate, utilissime ad approfondirne e chiarirne i vari aspetti.

Va premesso invero che la materia non è proprio per tutti in quanto presuppone di possedere un minimo substrato cognitivo in merito all’ottica, alla trasmissione del calore ed in particolare alla fisica tecnica  dell’irraggiamento che si dipana a partire dalle equazioni di Stefan-Boltzmann, di Plank, di Kirchhoff e di Wien.

Cercherò comunque per quanto mi è concesso in questa sede di essere il più semplice possibile nella trattazione, così da provare ad essere chiaro e comprensibile per tutti (o quasi) i lettori.

Partiamo dalla normativa con  le Normative internazionali e Nazionali sulla termografia.
Da come avrete già potuto ravvisare dal ben corposo elenco di norme di settore, la termografia non è affatto una disciplina così nuova e nemmeno priva di norme specifiche che la regolamentano.
Infatti il primo apparecchio commerciale è datato ben 1965! Il sensore dell’epoca, immerso in azoto liquido, vedeva un obiettivo grande più o meno come un “tubo da stufa” attraverso un sistema di prismi che ruotavano e producevano immagini di poche linee.

Al giorno d’oggi abbiamo invece termocamere grandi poco più di un cellulare, e già si intravvedono nel prossimo futuro trasformazioni radicali del panorama mondiale, grazie alla composizione di più termogrammi per ottenere risoluzioni sempre maggiori.

Inoltre il “post processing” digitale dei termogrammi che, sovrapposti con l’immagine (fotogramma) visibile ad occhio nudo, rende più nitide e leggibili le immagini, evidenziando al meglio ogni discrasia riscontrata, senza più sfumature ed effetti di “pixeling” (scalettatura).
La termografia nasce, guarda caso, per scopi prettamente militari (individuare il nemico in condizioni visive critiche o attraverso strutture non eccessivamente isolanti) ed è tutt’ora impiegata preponderantemente proprio in ambito bellico; giusto per questa ragione, un po’ come accade per la tecnologia di geolocalizzazione satellitare (G.P.S.), i “videoradiometri ad infrarossi”, volgarmente definiti “termocamere” hanno tutti risoluzioni geometriche (pixels) non elevatissime e costi decisamente notevoli (per ragioni di brevetto), così da limitarne l’uso e l’acquisto ai fini di un loro impiego per scopi esclusivamente non legati all’ambito bellico / offensivo.

Si può senz’altro affermare con sicurezza, che si è creato con il passare degli anni un circuito virtuoso nella comunità tecnico-scientifica per mettere a punto tecniche di misura sempre più efficaci e precise. In sintesi, la termografia si è trasformata col tempo e la pratica in unconsolidato strumento professionale per molte attività di rilievo ed indagine non distruttiva, compreso l’ambito medicale, di cui non tratterò per ovvie ragioni di impossibilità di esercizio della professione in ambito diagnostico e medico. È noto, ché la termografia in molti casi risulta essere così efficace in virtù della sua natura ottica, che le consente di operare senza contatto con l’oggetto esaminato. Conseguentemente, non è invasiva e non interferisce in modo apprezzabile con la misura stessa.
Inoltre, l’indagine termografica va normalmente eseguita ad una certa distanza e perciò elimina la necessità di raggiungere le superfici oggetto di studio con ponteggi e cestelli ed allontana pertanto l’operatore da potenziali pericoli. Per contro, è ovviamente necessario disporre di un accesso ottico verso le superfici di interesse. Questo problema però tende a ridursi con la miniaturizzazione delle termocamere, conseguente all’adozione dei sensori a matrice (FPA: focal plane array) o in rari casi con le fibre ottiche.

Vediamo allora che la termografia diviene anche disciplinafondamentale per controllare e monitorare componenti critici d’impianto come i quadri di distribuzione elettrica, motori, forni, etc. senza interrompere il servizio e riducendo al minimo i rischi ispettivi. Tra l’altro, la radiazione IR (infrarossa) non ha alcun effetto nocivo (a meno di non mettere l’operatore ad eseguire le termografie dentro ad un forno acceso!).
Esiste però un altro sostanziale vantaggio della termografia rispetto ad una rete, seppur fitta, di sensori termici e cioè la produzione di un’immagine (il “termogramma”), ossia di una matrice bidimensionale di punti di misura, così densa, da essere praticamente continua nello spazio.

È molto importante comprendere appieno l’enorme beneficio di poter visualizzare ed analizzare la distribuzione di temperatura.

Innanzitutto, l’immagine infrarossa dell’oggetto permette un’immediata localizzazione del problema o della difformità; inoltre, la visione panoramica è di enorme ausilio nella comprensione dei fenomeni, che generano un’eventuale anomalia termica.
In questo modo, si possono facilmente eseguire indagini comparativetra aree dell’oggetto esaminato con oggetti simili, ad esempio contenenti o meno difettosità. Infatti, è risaputo che i metodi relativi di controllo sono molto sensibili e più semplici dei metodi assoluti.

E’ però necessario sottolineare che questa tecnica porti a condurre un’indagine di tipo QUALITATIVO e non quantitativo e che per avere la certezza del risultato sia, in alcuni casi specifici, ovviamente necessario procedere ad ulteriori misure con metodi differenti, in modo da ottenereriscontri univoci e sovrapponibili (ad es. si suole verificare quantitativamente con un termoigrometro a contatto il fenomeno di risalita capillare o di condensa interstiziale individuato qualitativamente nelle pareti tramite termografia).

Nei settori edile ma soprattutto industriale ogni prodotto di importanza critica (travi per l’edilizia, viti di sostegno, componenti aeronautici, componenti automobilistici, corpi a pressione) deve essere controllato per la verifica della sua integrità e conformità alle norme vigenti o alle specifiche tecniche proprie del prodotto stesso. E’ noto infatti che una piccola crepa superficiale, innocua in condizioni normali, se sottoposta a sollecitazioni da fatica (stress ciclico), cresce costantemente di dimensioni fino a portare a rottura il componente.

La diffusione di un servizio ispettivo e preventivo è così alta, che sul mercato si trovano apparecchiature specifiche, di una praticità impensabile solo pochi anni addietro. In industria infatti si tende ad eseguire indagini cicliche a cadenza fissa e periodica in modo da prevedere rotture dei macchinari e fermi impianto in base ai surriscaldamenti degli organi oggetto di usura e stress (cuscinetti, alberi motore, attriti localizzati, etc.).

Costruzioni in zona sismica, nessuna deroga per le Regioni

Lo ha stabilito la Corte Costituzionale con uan recente sentenza intervenendo su una legge regionale del Molise




di ENZO DELLA CROCE - 26 Luglio 2012







Con la sentenza n. 201/2012 i giudici della Corte Costituzionale hanno accolto il ricorso presentato dal Governo contro l'art. 4 della legge della Regione Molise 9 settembre 2011, n. 25 (Procedure per l'autorizzazione sismica degli interventi edilizi e la relativa vigilanza, nonché per la prevenzione del rischio sismico mediante la pianificazione urbanistica).
"La normativa regionale impugnata, occupandosi degli interventi edilizi in zone sismiche e della relativa vigilanza, rientra nella materia della protezione civile, oggetto di competenza legislativa concorrente ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost" - spiegano i giudici - . 
"La disposizione dell’art. 88 del d.P.R. n. 380 del 2001, richiamata dall’Avvocatura dello Stato nell’odierno ricorso, riconosce soltanto al Ministro per le infrastrutture e i trasporti, come si è detto, la possibilità di concedere deroghe all’osservanza delle norme tecniche di costruzione nelle zone considerate sismiche; e questa Corte, nella sentenza n. 254 del 2010, ha già precisato che simile previsione – dettata allo scopo di garantire «una disciplina unitaria a tutela dell’incolumità pubblica, mirando a garantire, per ragioni di sussidiarietà e di adeguatezza, una normativa unica, valida per tutto il territorio nazionale» – costituisce la chiara espressione di un principio fondamentale, come tale vincolante anche per le Regioni". 

"Ne consegue che le previsioni dettate dalle norme tecniche contenute nel d.m. 14 gennaio 2008 non sono derogabili da parte delle Regioni - precisano -. Il punto 8.4.1, lettera c), di tali norme tecniche, relativo alle costruzioni esistenti nelle aree sismiche, fissa il limite del 10 per cento per le variazioni che comportino incrementi di carico globali, al di sopra del quale occorre procedere alla valutazione della sicurezza.

"La disposizione regionale impugnata, invece, impone, nel suo terzo periodo, l’obbligo della variante progettuale, da denunciare preventivamente con espresso riferimento al progetto principale, soltanto per le modifiche architettoniche che comportino un incremento dei carichi superiore al 20 per cento e, nel quarto periodo, prevede che, al di sotto o nell’ambito dei limiti indicati, sia sufficiente, «nell’ambito delle responsabilità proprie della direzione dei lavori», il deposito della verifica strutturale. La norma, in tal modo, si pone in contrasto con un principio fondamentale dettato dalla normativa statale

La disposizione censurata, contenuta nel terzo e nel quarto periodo, dell’impugnato comma 3 dell’art. 4, è, quindi, costituzionalmente illegittima. Va affermata, di conseguenza, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale anche del primo e del secondo periodo del medesimo comma 3; essi, infatti, privati del riferimento al quarto periodo, rimarrebbero incompleti e privi di possibilità di applicazione e, comunque, dispongono, anche detti periodi, nell’ambito di previsioni derogatorie riservate alla competenza statale". 

DURC, nuova circolare dall'Inps

Nuovi chiarimenti in materiadi certificazione e acquisizione d’ufficio del documento nella materia dei lavori pubblici

di ENZO DELLA CROCE - 26 Luglio 2012




Diffusa la circolare INPS n. 98 del 18 luglio 2012 per adeguare le indicazioni fornite con la circolare n.47 del 27 marzo 2012, in cui sono state fornite le prime istruzioni organizzative ed operative per l’applicazione delle nuove disposizioni introdotte dall’articolo 15 della l. 183/2012, in materia di certificati e dichiarazioni sostitutive.

L’aggiornamento è stato reso necessario a seguito delle direttive del Ministero della pubblica amministrazione con la circolare n. 6 del 31 maggio 2012, che fornisce direttive in merito all’applicazione al DURC dell’art.40, comma 2 del d.P.R. n. 445 del 2000, all’acquisizione d’ufficio dello stesso nell’ambito dei lavori pubblici ed alle modalità di effettuazione della relativa richiesta.

Applicazione al DURC delle disposizioni previste in materia di certificazione dall’art. 40 comma 02 del d.P.R. n. 445/2000 introdotto dall’art. 15, l. n.183/2011
Il d.l. 9 febbraio 2012, n. 5 convertito, con modificazioni, dalla legge 4 aprile 2012, n.35, con l’articolo 14, comma 06 bis ha stabilito che “nell’ambito dei lavori pubblici e privati dell’edilizia, le amministrazioni pubbliche acquisiscono d’ufficio il DURC con le modalità di cui all’articolo 43 del T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al d.P.R. 445/2000 e successive modificazioni”.

Nell’ambito citato, dunque, il DURC non potrà essere consegnato dal privato all’amministrazione, ma sarà la stessa amministrazione a doverlo richiedere agli enti preposti al suo rilascio.

Nei rapporti tra privati restano valide le disposizioni dettate dall’articolo 90 comma 9 del d.lgs. 81/2008 e, pertanto, in questi specifici casi, il privato potrà richiedere alla pubblica amministrazione il rilascio del DURC che dovrà, a pena di nullità, contenere la seguente dicitura: “Il presente Certificato non può essere prodotto agli organi della pubblica amministrazione o ai privati gestori di pubblici servizi”.

In ordine alla natura del DURC, infatti, il Ministero per la pubblica amministrazione e semplificazione nella circolare 6/2012 ne ha individuato, in modo chiaro ed univoco, il carattere certificativo in quanto lo stesso ricomprende tutte le caratteristiche previste dall’articolo 1, comma 1, lett. f) del d.P.R. n. 445/2000.
Conformemente alla giurisprudenza del giudice amministrativo, la sopra citata circolare qualifica il DURC “una dichiarazione di scienza da collocarsi fra gli atti di certificazione o di attestazione redatti da un Pubblico Ufficiale ed avente carattere meramente dichiarativo di dati in possesso della pubblica amministrazione, assistito da pubblica fede ai sensi dell’articolo 2700 c.c., facente pertanto prova fino a querela di falso”.
Ulteriore conferma della natura certificativa attribuita al DURC viene infine riconosciuta dall’articolo n.6 del d.P.R. 207/2010 che al comma 1 stabilisce che “per Documento Unico di Regolarità Contributiva si intende il certificato che attesta contestualmente la regolarità di un operatore economico per quanto concerne gli adempimenti INPS, INAIL, nonché Cassa Edile per i lavori, verificati sulla base della rispettiva normativa di riferimento”.


Preso atto di quanto precede, deve concludersi che al DURC debbano essere applicati integralmente i principi dettati dal d.P.R. n.445 del 2000; analogamente le stesse considerazioni devono essere estese anche al certificato di agibilità relativo alle imprese del settore dello spettacolo iscritte alla gestione ex ENPALS, nonché alle attestazioni di regolarità contributiva in generale.
Da quanto sopra descritto consegue che quanto prescritto nella circolare n. 47/2012 al quarto capoverso del paragrafo 4 viene integralmente sostituito con le indicazioni che precedono. Oltre a ciò si evidenzia che l’articolo 44 bis del medesimo D.P.R. -introdotto dall’art. 15 comma 1 legge 183/2011- ha stabilito che: “le informazioni relative alla regolarità contributiva sono acquisite d’ufficio, ovvero controllate ai sensi dell’articolo 71, dalle pubbliche amministrazioni procedenti, nel rispetto della specifica normativa di settore”.
In conclusione, il legislatore con la riforma normativa in ordine alla semplificazione e decertificazione amministrativa, ha voluto considerare la peculiarità della disciplina relativa al DURC ed ha previsto che lo stesso debba sempre essere acquisito d’ufficio dalle amministrazioni procedenti, eccezion fatta per i casi in cui la specifica normativa di Settore preveda la presentazione di una dichiarazione sostitutiva; in quest’ultimo caso l’amministrazione sarà tenuta a verificare la veridicità di quanto dichiarato dal privato ai sensi dell’art. 71 del d.P.R. n. 445/2000.


Acquisizione d’ufficio nella materia dei lavori pubblici
In materia di lavori pubblici, l’acquisizione d’ufficio del documento unico di regolarità contributiva così come espressamente previsto dall’art. n.6 comma 3 del d.P.R. n.207/2010, deve avvenire in tempi rapidi, sia nella fase di gara che in quella successiva, al fine di evitare ritardi nei pagamenti che possano far scattare responsabilità erariale a carico del dipendente pubblico incaricato di richiedere il DURC.

Preme rammentare inoltre che, secondo quanto chiarito dalla nota congiunta INPS/INAIL del 26 gennaio 2012, le imprese interessate possono verificare l’inoltro della richiesta di DURC da parte delle Pubbliche amministrazioni mediante una funzione di consultazione disponibile sul sito dello sportello unico previdenziale.


Modalità di effettuazione della richiesta del DURC
Il Ministero per la pubblica amministrazione e semplificazione con la sopra citata circolare 6/2012 ha ribadito la necessità di utilizzare, salvo motivati casi eccezionali, il servizio on line disponibile nell’applicativo sportello unico previdenziale. Nella stessa circolare ha formulato l’invito agli Istituti Previdenziali ad utilizzare in fase di output lo strumento della PEC (indicazione peraltro già resa operativa dall’INPS con messaggio Hermes n.7255 del 27 aprile 2012), in quanto l’utilizzo di tale modalità determina indubbi risparmi di risorse economiche ed amministrative oltre ad una riduzione dei tempi di chiusura del procedimento di acquisizione d’ufficio del Documento Unico di Regolarità Contributiva.

Si sottolinea, da ultimo, che nei casi in cui il DURC debba essere rilasciato d’ufficio, sullo stesso deve obbligatoriamente apposta la dicitura: “rilasciato ai fini dell’acquisizione d’ufficio”.

La strana storia del Generale dei Carabinieri Francesco Delfino

Dal millantare pseudo-meriti sulla cattura di Riina alla sentenza della Corte di Cassazione datata 23 Gennaio 2001 che lo condanna per truffa aggravata a tre anni e quattro mesi di reclusione; secondo la sentenza, avrebbe approfittato del rapimento del suo amico Giuseppe Soffiantini, per truffare alla famiglia 800 milioni, in cambio della promessa di far liberare il sequestrato




di ENZO DELLA CROCE - 26 Luglio 2012






Chi è il Generale dei Carabinieri Francesco Delfino? Ecco allora il racconto, diviso in vari capitoli, della sua "prestigiosa e onorata carriera al servizio dello Stato":






1. Il mafioso che portò a Riina

Nella notte tra l'8 e il 9 gennaio 1993, in una stanzetta del Nucleo operativo dei Carabinieri di Novara, un meccanico di 39 anni, abitante a Borgomanero, chiede di parlare con un capo, un pezzo grosso, un generale: deve fare una scelta radicale, può rivelare cose delicatissime. è stato arrestato a sorpresa nella sua officina, gli hanno trovato una pistola Tanfoglio. Ma sa bene che non è per quell'arma che lo tengono blindato. Si chiama Baldàssare Di Maggio detto Balduccio, è nato a San Giuseppe Jato provincia di Palermo, è uomo d'onore, boss di Cosa Nostra, molto vicino al capo dei capi, Totò Riina 'o Curtu. Balduccio è fuggito al Nord perché ha capito che nello scontro che lo oppone a Giovanni Brusca, 'o Curtu si è schierato con i Brusca: vuol dire essere già morti. Sono ormai le due di notte quando, chiamato dal tenente colonnello Vincenzo Giuliani, comandante provinciale dei Carabinieri di Novara, arriva il «pezzo grosso» che Baldàssare ha chiesto. è il generale dei carabinieri Francesco Delfino.

Quella notte iniziò la collaborazione di Balduccio Di Maggio e la caccia a Riina. Quella notte il generale Delfino tentò di aggiungere un altro mattone alla sua carriera e nuovo lustro alla sua leggenda: usare Di Maggio per farsi portare da Riina. «Sono disposto a rivelare quanto so su Cosa Nostra. A instaurare un rapporto di collaborazione solo ed esclusivamente con il generale Delfino, con il colonnello Tassi, il tenente colonnello Giuliani e magistrati solo se accompagnati da uno dei predetti ufficiali»: questo è l'impegno che viene fatto sottoscrivere a Balduccio dal generale. Di Maggio riempie due fogli di schizzi e indicazioni, con «l'ubicazione delle due ville dove ho visto in Palermo Totò Riina». A pagina 13 il verbale ribadisce: «Sono comunque disponibile a continuare la collaborazione alle condizioni che ho dettato all'inizio e cioè di poter parlare con il generale Delfino, il colonnello Tassi e il tenente colonnello Giuliani e con un magistrato da uno dei tre accompagnato...».

Quella notte, a Novara, furono ben tredici i carabinieri che firmarono, insieme a Delfino, il fatidico verbale. Quella notte nacquero molti dei misteri aperti ancora oggi attorno a Di Maggio. Fu il solo Delfino a interrogare Balduccio, dicono voci raccolte dentro l'Arma, e le tredici firme furono aggiunte a verbale chiuso. Il generale interrogò Di Maggio senza averne la facoltà, poiché non era stato delegato da alcun magistrato a svolgere funzioni di polizia giudiziaria. La dottoressa Marina Caroselli, il giovane pubblico ministero di Novara che si occupò del caso, ebbe anzi uno scontro durissimo con il generale, che si comportò con lei in modo volgare, prima insinuante e poi aggressivo.

Quella notte Di Maggio parlò anche di Andreotti, ma Delfino gli disse di lasciar perdere l'argomento, di concentrarsi invece su Riina; e gli promise un miliardo: andò davvero così? Solo Delfino e Balduccio sanno la verità. Certo è che, dopo quella notte, la vicenda non si sviluppò come Delfino sperava. Di Maggio fu trasferito a Palermo e la cattura di Riina fu realizzata dal Ros (il Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri) del generale Mario Mori e del capitano «Ultimo». Ma Delfino ha comunque tentato di accreditarsi come l'uomo che permise la cattura del boss dei boss: diffondendo una versione dei fatti secondo cui è tutto suo il merito della cattura di Riina.


2.La leggenda sull’eroico capitano


Quante leggende, attorno all’«ufficiale più decorato dei Carabinieri», oggi condannato in via definitiva per aver estorto quasi un miliardo alla famiglia Soffiantini. Ma anche quante imprecisioni, ambiguità, bugie, diffuse grazie a un’ottima capacità di tessere rapporti con la stampa. Delfino è abilissimo a costruire il proprio personaggio, a nutrire il mito. Sparge informazioni che lo accreditano come l’uomo che ha arrestato Curcio nel 1976, anche se non è vero. Non ha mai lavorato all’antiterrorismo insieme al generale Carlo Alberto dalla Chiesa, malgrado lo abbia lasciato credere. Non ha avuto un ruolo determinante nell’arresto di Riina, benché se lo sia attribuito.

Le imprecisioni e le bugie iniziano fin dalla fondazione della sua leggenda: lo scrittore Corrado Alvaro avrebbe «cantato le gesta di Massaru Peppi», al secolo Giuseppe Delfino, brigadiere dei Carabinieri e padre del generale. Ma Alvaro, in Gente in Aspromonte, Massaru Peppi non lo nomina proprio. In un racconto di Alvaro, Il canto di Cosima, compare sì un carabiniere, chiamato «il Delfino», ma trattato non proprio con deferenza: «Ma sì, il Delfino serviva la legge; altrimenti, così malizioso, sarebbe stato un ladro che non lo avrebbe acchiappato nessuno».

Quasi una profezia. Semmai è il fratello del generale, Antonio Delfino, insegnante, preside e giornalista, a creare, insieme, il mito del padre (Massaru Peppi lo sbirro) e del suo antagonista (Nirta il pecoraio): nel libro Gente di Calabria celebra l’epopea di un carabiniere in lotta contro una criminalità contadina dedita ai furti di capre e pecore, ben diversa dalla ’Ndrangheta organizzata, cresciuta nel secondo dopoguerra. Oggi, dopo che «il Delfino» è stato «acchiappato», qualcuno ha scritto che l’arresto di un generale dei Carabinieri è un cattivo segnale per il Paese.

Ma perfino dentro l’Arma ora qualcuno ha il coraggio di dire che il cattivo segnale è un altro, è che certi personaggi in questo Paese abbiano potuto diventare generali, è che quel generale non sia stato fermato prima. La storia di Delfino è la storia degli incubi della Repubblica. La sua carriera ha attraversato tutti i grumi oscuri del paese, dall’eversione nera alle stragi, dal terrorismo rosso alla mafia siciliana, dai sequestri di persona della ’Ndrangheta calabrese fino a quelli dell’Anonima sarda. Fino all’arresto e alla condanna per il sequestro Soffiantini, occasione per mettere in fila tanti capitoli che formano, insieme, la vita di un uomo spregiudicato e la storia di un paese a legalità limitata.


3. Le imprese del «capitano Palinuro»

Francesco Delfino nasce il 27 settembre 1936 a Platì, provincia di Reggio Calabria, paese ad altissima densità mafiosa. Dopo il liceo classico frequentato a Locri entra nell’Arma e frequenta la Scuola allievi sottufficiali. Nel 1957, vicebrigadiere a Rho, in provincia di Milano, conosce Carla Valsesia, bella professoressa di Lettere, che diventa sua moglie. Poi per due anni è a Modena, all’Accademia militare, da cui esce sottotenente. A Roma frequenta la Scuola ufficiali, poi nel 1963 torna al Nord, a Verolanuova, nel Bresciano, come tenente.

Nel 1965 approda a Luino, sul Lago Maggiore. Si iscrive alla facoltà di Scienze politiche a Pavia. Ma comincia a costruire una sua rete di rapporti. Racconterà, molti anni dopo, il «pentito» di ’Ndrangheta Saverio Morabito a Piero Colaprico e Luca Fazzo: «Mio padre, gli ultimi giorni di luglio, ogni volta che dovevamo andare in Calabria per le ferie, cominciava a prepararsi e faceva una capatina in Svizzera, a fare il rifornimento di sigarette. A Luino all’epoca c’era il tenente Francesco Delfino. Mio padre gli telefonava, andava a trovarlo, passavano la giornata insieme, poi mio padre andava dall’altra parte del confine, faceva rifornimento di sigarette, zucchero, caffè, cioccolato, caricava, caricava...».

Nel 1969 a Delfino danno la tenenza di Sòrgolo, nel Nuorese, e nel 1970, a Cagliari, si laurea con una tesi sui sequestri di persona. Il ragazzo è sveglio. In Sardegna, da capitano, indaga sulla serie nera dei rapimenti del ’70, arresta Giuseppe Càmpana detto il Rubbino, luogotenente di Graziano Mesina, e scopre gli autori della strage di Lanusei, cinque morti.

Nel 1971 si trasferisce a Brescia: inizia la sua carriera d’oro, e iniziano le voci che già lo indicano come uomo dei servizi segreti. Comincia a indagare su alcuni misteriosi attentati alle linee ferroviarie in Valtellina. Opera del Mar, il Movimento di Azione Rivoluzionaria guidato da Carlo Fumagalli, partigiano «bianco» e, negli anni Sessanta, agente Cia nello Yemen: il Mar è una formazione armata anticomunista, golpista, ma non fascista; una struttura filoatlantica, a disposizione degli oltranzisti filoamericani, con saldi contatti dentro le istituzioni. Nonostante quei contatti, il 9 maggio 1974 Delfino arresta Fumagalli. «Ho preso Carletto!», telefona contento agli amici.

Due mesi prima, il 9 marzo, aveva bloccato due neofascisti delle Sam (Squadre di Azione Mussolini), Kim Borromeo e Giorgio Spedini. Erano a bordo di un’auto imbottita d’esplosivi. L’operazione era stata realizzata grazie a Luigi Maifredi, uno dei tanti «confidenti» di cui è piena la carriera di Delfino: più che informatori per prevenire reati, veri e propri agenti provocatori con il compito di gestire dall’interno operazioni illegali. L’arresto dei due fascisti, lasciati percorrere indisturbati un lungo tratto di strada e poi bloccati proprio a Sonico, in provincia di Brescia, serve a Delfino per incardinare a Brescia (cioè a se stesso) le indagini sul Mar di Fumagalli.

4. La strage nera

Nella notte tra il 18 e il 19 maggio esplode in piazza Mercato a Brescia un ragazzino neofascista, Silvio Ferrari, a cavallo di una Vespa che trasportava una carica di tritolo. La fidanzata di Ferrari è una bella ragazza diciassettenne, Ombretta Giacomazzi. Molti anni dopo, Ombretta sposerà Carlo Soffiantini, uno dei figli dell’industriale sequestrato. Oggi Giordano, fratello di Carlo, ha dichiarato: «Delfino, quando era capitano, aveva indotto Ombretta a testimoniare il falso, dopo averla arrestata». Ma il culmine di quel tremendo 1974, anno di stragi, d’intrighi e di colpi di Stato minacciati, è il 28 maggio: in piazza della Loggia, a Brescia, esplode una bomba che fa otto morti e 94 feriti. Delfino porta ai giudici, che per la strage stanno seguendo la pista dei fascisti milanesi, un colpevole bresciano, Ermanno Buzzi. È Ugo Bonati, un uomo della banda di Buzzi, ad accusare quella strana figura di fascista e trafficante d’arte.

Bonati, poi, scompare e ancor oggi non si sa che fine abbia fatto. Buzzi è ucciso da suoi camerati nel carcere di Novara, strangolato con le stringhe delle scarpe. E la strage di Brescia è restata senza colpevoli. Il senatore Giovanni Pellegrino scrive nella sua proposta di relazione alla Commissione parlamentare sulle stragi: «Lascia adito a fortissime perplessità la circostanza che il capitano Delfino imprima all’inchiesta su piazza della Loggia una direzione che si è rivelata improduttiva, indirizzandola verso lo sgangherato ed eterogeneo gruppo che ruotava attorno a Ermanno Buzzi. Dall’altro lato, avviene che l’inchiesta sul Mar non raggiunga quel grado di approfondimento che avrebbe potuto consentire il disvelamento del contesto eversivo in cui la strage bresciana può oggi affermarsi inserita».

Oggi è possibile sapere qualcosa di più del capitano Delfino, il carabiniere che arrestava i «neri»: secondo alcuni testimoni, era un «nero» egli stesso, invischiato nel grande gioco dell’eversione degli anni Settanta. O meglio: era un uomo dello Stato che, all’occorrenza, si faceva passare per «nero» e usava spregiudicatamente i «camerati» per la sporca guerra senza esclusione di colpi che si stava combattendo. Racconta Carmine Dominici, ferroviere, ’ndranghetaro politicizzato, neofascista di Avanguardia Nazionale (al giudice di Milano Guido Salvini, verbale del 29 settembre 1994): «So che esisteva un ufficiale dei Carabinieri che curava il trasporto di timer ed esplosivi verso il nostro ambiente avanguardista calabrese. Non so il nome, ma so per certo che un ufficiale dei Carabinieri a cognome Delfino, appartenente a una Loggia massonica, era legato ad Avanguardia Nazionale. Era considerato “dei nostri”. Specifico che con la parola “nostri” indicavamo coloro che anche operativamente operavano con Avanguardia, a differenza della parola “vicini” con la quale indicavamo coloro che davano appoggio, ma senza partecipare a fasi operative; tra questi ricordo il Miceli e il Birindelli».

Perché Avanguardia Nazionale aveva stretto contatti con Delfino? Perché, risponde Dominici a Salvini nel 1994, «erano notori i legami di Delfino con la criminalità organizzata e quindi era da considerare interlocutore di adeguato livello».

Ne risulta un bel mix di eversione e criminalità, di «neri» e di mafiosi, in cui gli uomini dello Stato, di alcuni apparati segreti dello Stato, giocano un gioco pericoloso. Delfino in quegli apparati è dentro fino al collo: è lui, dicono oggi i magistrati di Roma, quel «capitano Palinuro» che nel giugno 1973 partecipa a una cruciale riunione a Milano, nella zona della Galleria Vittorio Emanuele, per mettere a punto i piani del Golpe Borghese. Erano presenti, oltre a «Palinuro», tutte le componenti politiche e militari del piano, il colonnello Amos Spiazzi, i finanziatori genovesi De Marchi e Lercari (amministratore della Piaggio), un capo di Ordine Nuovo rimasto sconosciuto.

È Delfino, ribadiscono oggi le carte processuali, quel «capitano Palinuro» che forniva alle Sam armi ed esplosivi (tra cui gelignite). Maestro del doppio gioco: «Palinuro» dava armi ai camerati, Delfino poi, quando conveniva, li arrestava (come aveva fatto con Borromeo e Spedini).

Sempre nel 1974, tramontato il progetto golpista, aveva portato in carcere anche Adamo Degli Occhi, l’avvocato milanese leader della Maggioranza Silenziosa, movimento d’opinione con il compito di sostenere le azioni dei golpisti. Secondo i documenti trasmessi a Roma dal giudice Salvini, Delfino sarebbe uno degli ufficiali italiani più vicini alla Cia, il servizio segreto degli Stati Uniti: e fin dai primi anni Settanta. Lui, davanti alla Commissione stragi riunita in seduta segreta, nega: «Vengo continuamente pedinato, io, dalla Cia. E ho dovuto lasciare gli Stati Uniti, forse perché ho toccato qualcosa che non dovevo toccare».

Eppure il neofascista Biagio Pitarresi (quello che ha raccontato lo stupro «di Stato» ai danni di Franca Rame) parlò di Delfino con Carlo Rocchi, uomo della Cia a Milano: «Rocchi mi disse che mi avrebbe portato a conoscere il generale Delfino, che era “uno dei loro”, ossia persona legata ai servizi statunitensi, e che avrebbe dovuto provvedere alla mia copertura dopo l’esecuzione dell’attentato». Quale attentato? Quello che era in preparazione nei confronti del procuratore aggiunto di Milano Gerardo D’Ambrosio, coordinatore del pool Mani pulite, e che fu davvero tentato (ma sventato per la prontezza di un uomo della scorta) il 14 aprile 1995.


5. Le mani sulle Br

Encomi e medaglie al generale sono arrivati anche per «l’ottimo lavoro» svolto nei confronti del terrorismo rosso. Lavoro «doppio», anche in questo caso. Delfino, dopo le esperienze bresciane, nel dicembre 1975 è distaccato a Milano con la sua squadretta: deve occuparsi di brigatisti. Dopo qualche settimana di pedinamenti, viene scoperto il «covo» di via Maderno 10.

Quando però, il 18 gennaio 1976, gli uomini dell’allora maggiore Nicolò Bozzo arrestano (con tanto di conflitto a fuoco) Renato Curcio e Nadia Mantovani, Delfino è già nelle Marche, sulle tracce di Patrizio Peci. Nel marzo 1976 è invece presente di persona, pistola in pugno, alla Stazione Centrale di Milano e dopo un conflitto a fuoco arresta il brigatista Giorgio Semeria, appena sceso dal treno proveniente da Venezia. È un informatore, anche questa volta, la carta vincente di Delfino: un padovano fiancheggiatore delle Br lo avverte del viaggio di Semeria.

Nel 1978, quando le Brigate Rosse fanno il colpo grosso, cioè il sequestro del presidente della Dc Aldo Moro, la mano di Delfino si fa sentire ancor più pesante. «Un suo uomo, Antonio Nirta, della ’Ndrangheta calabrese, è presente in via Fani al momento del rapimento»: così racconta il «pentito» calabrese Saverio Morabito al magistrato milanese Alberto Nobili, che manda a Roma le carte raccolte.

Il sostituto procuratore Antonio Marini procede nelle indagini e si imbatte in un altro personaggio, Alessio Casimirri, brigatista rosso diventato confidente di Delfino: Casimirri avrebbe raccontato al generale che era in preparazione il rapimento Moro e Delfino, invece di avvertire i magistrati, avrebbe passato la notizia al Sismi, il servizio segreto militare.

Risultato: Moro ucciso il 9 maggio 1978, Casimirri «esfiltrato» dai servizi prima in Francia e poi in Nicaragua, Delfino promosso il 6 giugno 1978 e passato al Sismi. Incarichi all’estero, ad Ankara, Bruxelles, Il Cairo, Stati Uniti...

6. L’antimafia del generale

Delfino rispunta in Italia nel 1887, con il grado di colonnello (anche se non ha mai comandato prima, come è d’uso tra i Carabinieri, una compagnia e un gruppo). Dopo aver attraversato terrorismo nero e rosso, si tuffa nella nuova emergenza nazionale: Cosa Nostra. In attesa di un nuovo incarico è inviato a Palermo come vicecomandante della Legione. Un incarico non operativo, dicono all’Arma, un parcheggio: aveva la responsabilità dell’ufficio amministrazione, della motorizzazione e dell’infermeria.

Ma Delfino non la racconta così: sostiene di aver raccolto 400 uomini in un capannone dove erano riparati gli elicotteri e, «senza dire a nessuno l’obiettivo perché è mia abitudine non fidarmi di nessuno», di essere partito alla ricerca di Riina. Dove? Nella villa in costruzione di Balduccio Di Maggio. «Purtroppo», racconta Delfino alla Commissione parlamentare antimafia il 25 giugno 1997, «non ho trovato Riina in quella villa in costruzione, quasi ultimata, di un personaggio che nessuno conosceva come l’autista di Riina».

La leggenda aggiunge particolari mirabolanti all’impresa di Delfino a Palermo: la scoperta di lunghissimi cunicoli sotterranei che partivano dalla villa di Di Maggio; l’esplosione dell’auto di Delfino, addirittura nel cortile della sede della Legione... Agli altri Carabinieri tutto ciò non risulta. Vero è invece che Delfino viene assegnato al comando della Legione di Alessandria. «Dissero che a Palermo mi agitavo troppo», spiega Delfino alla Commissione antimafia, lasciando capire che la sua intenzione di cercare davvero i boss latitanti era stata la causa del suo allontanamento.

Delfino cerca di rientrare in gioco a Palermo quando a Novara gli capita tra le mani Di Maggio: per una assoluta casualità (Balduccio, arrestato a Borgomanero su impulso dei Carabinieri di Palermo che avevano cominciato a cercarlo già nel primo semestre del 1992, chiede di parlare con un pezzo grosso, un generale, durante quella lunghissima notte del 9 gennaio ’93 a Novara). Che cosa si dissero, quella notte, Delfino e Di Maggio? Il generale promise davvero un miliardo a Balduccio in caso di «pentimento»? Balduccio raccontò davvero già in quelle ore la storia del bacio tra Riina e Andreotti, che Delfino si guardò bene dal mettere a verbale? Ci furono altri patti segreti stipulati quella notte?

Certo è che Delfino non consegnò quello strano verbale, firmato da ben quattordici carabinieri, al magistrato di turno della procura di Novara, la dottoressa Caroselli, ma lo portò a Gian Carlo Caselli, che era a Torino in attesa di partire per Palermo, dove, dopo la morte di Giovanni Falcone, aveva chiesto di andare a fare il procuratore della Repubblica. Delfino cercò di agganciarsi a Caselli e di essere trascinato con lui in Sicilia, a occuparsi delle ricerche di Riina. Ma Caselli non accettò l’offerta e Delfino fu allora costretto a trasmettere gli atti a Palermo, dove entrò in scena la squadra di «Ultimo». Con tutto ciò, Delfino non mancò di far filtrare sulla stampa che il merito della cattura di Riina era suo. E, prima di ciò, fece trapelare la notizia dell’arresto di Di Maggio e del suo «pentimento», che doveva restare segreto il più a lungo possibile.

7. Affari e politica, un’indagine a Catania

Il nome di Delfino ricompare, a sorpresa, in un’altra indagine di mafia. I magistrati di Catania mettono sotto osservazione, attorno al 1994, un gruppo di colletti bianchi che fa riferimento ai boss di Cosa Nostra Nitto Santapaola, Aldo Ercolano e Giuseppe Pulvirenti. Quei colletti bianchi sono l’uomo d’affari catanese Felice Cultrera e i suoi soci, Gianni Meninno a Bologna e Walter Beneforti a Milano, in contatto, tra l’altro, anche con Alberto Dell’Utri.

I business che hanno in corso sono di tutto rispetto: la costruzione di 5 mila appartamenti a Tenerife; l’acquisto di quote dei casinò di Marrakech, Istambul, Praga, Malta, Montecarlo, da usare per riciclare denaro sporco; la commercializzazione e la ricettazione di titoli al portatore; l’intermediazione di armi pesanti e l’acquisto di elicotteri (con la presenza nell’affare di una vecchia conoscenza delle inchieste sul traffico d’armi e droga, il miliardario arabo Adnan Khashoggi); l’avvio di attività finanziarie in Spagna, Arabia Saudita, Israele, Giordania, Egitto, Marocco, Turchia, Cecoslovacchia, Russia, Corea, Hong Kong, Montecarlo... Un vortice di movimenti, di contatti, di incontri.

Ma mentre Cultrera e soci fanno affari che dimostrano una vastissima disponibilità di capitali, non dimenticano di stringere rapporti ad alto livello con uomini della politica e con rappresentati dello Stato. Cultrera, Meninno e Beneforti parlano più volte al telefono, intercettati dagli uomini della Dia, con personaggi delle istituzioni e perfino con un notissimo generale dei carabinieri: Delfino, appunto, che nel 1994 è a Roma, al vertice della Direzione centrale antidroga. Ore 23.04 del 15 gennaio 1994: Cultrera conversa con il suo socio Meninno. Questi fa cenno «al generale» e raccomanda a Cultrera di «non insistere», assicurando che seguirà lui personalmente «la cosa» con Beneforti.

La mattina del 2 febbraio seguente, alle 9.12, Cultrera chiama Beneforti da Lisbona e gli dice che «è il momento buono» per andare a Roma. Il suo interlocutore risponde che telefonerà subito «a quell’amico» per fissare un appuntamento. Alle 9.18, appena chiusa la conversazione, compone lo 06.51994435. è un numero del ministero dell’Interno, Direzione centrale antidroga. «Pronto, sono il dottor Franz», dice Beneforti al centralinista, mentendo sulla propria identità. «Vorrei parlare con il Comandante». Quando gli viene passato Delfino, gli si rivolge con familiarità, dandogli del tu, e gli comunica che «c’è qualche buona speranza filatelica» che spera di portare a conclusione entro il mese di febbraio. Il generale risponde che ha capito.

Poi Beneforti dice che avrebbe piacere d’incontrarlo, di fare una chiacchierata con lui per fare il punto sulla situazione; e chiede se può portare la persona che «lui sa». Delfino risponde di no. Alle rimostranze di Beneforti, il generale replica che spiegherà il perché quando parleranno di persona. «Ma c’è qualcosa su di lui?», chiede Beneforti. E Delfino: «Ma c’è..., c’è..., c’è e non c’è. è che lui lo deve capire!». I due chiudono la conversazione dopo una contrattazione sul luogo dell’incontro e la decisione di risentirsi al telefono il lunedì successivo.

Walter Beneforti è una vecchia conoscenza di chi ha qualche familiarità con le vicende nere d’Italia. Durante la guerra lavorò per i servizi speciali della polizia americana a Trieste, in quegli anni punto di convergenza dei servizi segreti di ogni parte del mondo. Nel 1956 fu inviato a Roma, all’Ufficio Affari Riservati. Fino al 1960, quando cadde il governo Tambroni, realizzò per la Cia azioni di spionaggio e controllo nei confronti dei politici italiani, democristiani in primo luogo. Poi fu trasferito a Frosinone, indi arrivò a Milano come capo della Criminalpol. Nel 1971 presentò ufficialmente le dimissioni, anche se di fatto rientrò negli Affari Riservati. Nel 1973 fu coinvolto nell’inchiesta delle intercettazioni telefoniche insieme a Tom Ponzi, fu arrestato e restò per mesi in carcere. Venne arrestato di nuovo nel 1976 e nel 1978, coinvolto in traffici e riciclaggio di denaro dei sequestri.

8. Laureato in sequestri: Sardegna, Brescia, Milano, ancora Brescia

Francesco Delfino sui sequestri di persona la sa davvero lunga. Non soltanto per la sua tesi di laurea. Ma per averli incontrati sul campo, prima in Sardegna nel 1970, poi a Brescia dal 1974, indi a Milano nel 1977, infine ancora a Brescia, nel 1998. Esperto in sequestri. Oggi, dopo ciò che è emerso sull’estorsione ai Soffiantini, qualcuno dentro l’Arma rivanga brutte dicerie e vecchi sospetti nati attorno alla gestione dei sequestri Lucchini, Gnutti, Pinti, avvenuti a Brescia negli anni Settanta: un furgone con 7 miliardi portato in Toscana, che la leggenda dice essere stato guidato da Delfino in persona; una Mercedes color aragosta regalata in seguito all’ufficiale. Forse solo maldicenze, che oggi però tornano in circolo a causa delle difficoltà in cui si trova Delfino.

Più solide invece le accuse sulla gestione dei sequestri a Milano, alla fine degli anni Settanta: una storia che era costata al generale un avviso di garanzia, ma che era poi stata archiviata dal giudice nel novembre 1994. Con una formula, però, che lascia aperti i dubbi e che oggi ripropone tutte le domande lasciate senza risposta allora.

Il via all’indagine lo aveva dato Saverio Morabito, ieri killer spietato della ’Ndrangheta al Nord, oggi collaboratore di giustizia considerato di «attendibilità pressocché assoluta». È lo stesso personaggio che ricorda i bei tempi in cui suo padre andava a trovare il giovane tenente Delfino a Luino prima di passare il confine svizzero carico di materiale di contrabbando. «Delfino ha raccolto le mie confidenze tanti anni fa», racconta Morabito, «e alla fine ha mostrato un piccolo registratore che aveva in una cartella e mi ha detto: vedi, io avrei potuto registrare tutto, ma non ho registrato niente. Se parlerai ai magistrati, raccontagli quello che vuoi, ma non firmare niente». Poi il generale, sibillino, aggiunge: «Ti prometto che ti farò avere gli arresti domiciliari». Morabito capisce, e tace. Solo tre anni dopo si decide a parlare con il sostituto procuratore di Milano Alberto Nobili: svelando i giochi pericolosi di Delfino, il suo slalom infinito tra guardie e ladri.

Dopo Morabito, molti altri calabresi decidono di parlare. Erano anni difficili. Mentre l’attenzione dell’opinione pubblica era calamitata dalle azioni eversive dei gruppi di estrema sinistra, la criminalità organizzata accumulava ricchezze e potere.

A Milano e in Lombardia tra il 1976 e il ’77 l’allarme sequestri aveva raggiunto il massimo grado. Delfino, allora capitano, era attivissimo. Nel ’76 riesce a penetrare nel covo dov’è tenuto prigioniero Carlo Alberghini pronunciando addirittura la parola d’ordine dei rapitori. Nel ’77 libera Erminio Rimoldi e arresta una trentina di persone. Come riesce a ottenere questi fulminei successi? «Avevo sei confidenti negli ambienti dei calabresi di Corsico e di Buccinasco», risponde Delfino. «Tra di noi c’è un infiltrato», si allarmano i calabresi.

Delfino inizia a pedinare e intercettare boss e soldati delle famiglie Sergi e Papalia. Sono i compaesani di Platì e San Luca trapiantati a Corsico e Buccinasco, nell’hinterland milanese. I controlli iniziano esattamente un mese prima che venga messa a segno una tripletta di sequestri in dieci giorni. Ma, stranamente, i rapimenti non sono evitati. Anzi, proprio nei giorni in cui avvengono i primi due (l’8 e il 16 maggio 1977) i servizi di pedinamento sono sospesi. Come mai? Delfino ha un suo uomo detro il gruppo che li organizza: è Antonio Nirta detto «Due Nasi», il nome che in Calabria si dà al fucile a canne mozze. Ma il capitano interviene solo a cose fatte: mette a segno «brillanti operazioni» che gli valgono encomi, fama e avanzamento di carriera. Più 300 milioni (una somma enorme, per quegli anni), che dice di dividere tra i suoi sei fantomatici confidenti. Racconta Mario Inzaghi, il killer della banda: «Come poi abbiamo potuto capire tutti chiaramente, siamo stati lasciati eseguire il sequestro Galli e soprattutto il sequestro Scalari».

Poi Nirta è finito in carcere. Non lo chiamano più «Due Nasi», ma «L’Esaurito». Fa il pazzo, cammina avanti e indietro nella gabbia degli imputati durante i processi, pronuncia discorsi complicati senza capo né coda. Conosce molti dei segreti di Delfino, ma non sembra volerli raccontare. Il generale, del resto, ha dichiarato di non conoscere nessuno della famiglia Nirta. «In questo modo», commenta Morabito, gli ha mandato a dire: stattene tranquillo che io non ti tradirò». Nella villa di Delfino a Meina, vicino a Novara, un grande muro e un pesante cancello custodivano i suoi segreti. Tra il giardino e la ferrovia ci sono addirittura vetri antiproiettile.

Tempo fa Morabito ha confessato a Nobili: «Guardi, dottore, i Sergi, i Papalia ci odieranno. Ma io di loro non ho paura. Ho paura solo del generale Delfino». Ora il generale che ha attraversato in silenzio tutti i luoghi oscuri della storia recente del Paese è un condannato definitivo. L’Italia ha un motivo in più per fare chiarezza sul suo passato.