sabato 30 giugno 2012

La cura di Renzo Piano: "ruspe e fantasia"


Intervista a Renzo Piano: La sua ricetta per difendere il paesaggio. Un premio nelle langhe. La bellezza del paesaggio rovinato dall'uomo si può difendere con le ruspe e con la fantasia


Con la dinamite e con la matita. «Ci sono capannoni industriali che deturpano un fondovalle e nascondono la prospettiva di una collina. Allora, se è possibile, bisogna comprarli per entrarne in possesso e poi abbatterli. Oppure armonizzarli provando a nasconderli un po', dando aria e verde a quelle strutture».
L'architetto della leggerezza ha ricevuto sabato il premio «Estetica del paesaggio agrario», assegnato dall'Enoteca Regionale del Roero, e parla tra vigneti meravigliosi. Ma Langa e Roero hanno conosciuto negli ultimi decenni, insieme alla ricchezza del vino e della terra, anche l'oltraggio del cemento e dei nanetti da giardino, a difesa di assurde villone hollywoodiane.



Troppo tardi per intervenire?


«Non è mai tardi e non è un'utopia. Non è solo giusto, è anche utile, perché l'Italia è un paese fondato sulla sua bellezza anche come risorsa economica, è questo il vero capitale».

Lei cosa farebbe, per cominciare?


«L'idea inglese, seguita di recente dal Fai, è quella di acquistare gli orrori e poi demolirli. Però non bisogna essere integralisti: non credo che questa sia l'unica soluzione, perché insieme alle pietre esistono le persone, e un brutto capannone può anche dare lavoro o riparo».

Si può almeno mimetizzare?


«C'è una vecchia battuta: i medici nascondono gli errori sottoterra, gli architetti dietro gli alberi. Invadere di verde una brutta costruzione è già qualcosa, far salire un'edera lungo un muro può sembrare banale però è una prima ipotesi. Il verde si può mettere attorno, sopra e dentro, aprendo gli spazi, facendo respirare gli 
edifici».

Demolire significa andare contro l'idea di crescita?


«L'unica crescita giusta è quella sostenibile, anche nelle città che stanno implodendo, anche nelle periferie, non solo nelle nostre campagne. La prima cosa è conoscere il territorio, qualunque territorio. Esiste una parola di moda, "deregulation", elegante e terribile: nel suo nome non si può rinunciare all'attenzione e alla difesa dell'ambiente».

Non pensa che le architetture umane abbiano spesso rovinato o compromesso quelle naturali?


«La bellezza che più mi commuove è quella segnata dalla mano dell'uomo. La campagna piemontese, come quella ligure, è un disegno di fatica attraverso le generazioni. E' terra conquistata e poi addomesticata. Invece la natura pura e semplice dopo un po' mi annoia. Guardo un tramonto, un orizzonte marino, una nuvola e dico "bello!". Ma dopo mezz'ora, dico anche: "bello, e poi?". La vera bellezza non ci si stanca mai di guardarla».

L'Italia è un paese sensibile alla difesa del bello?


«Pochissimo, quasi niente. Se fossimo la nazione ideale, a questo penserebbero le autorità. Invece la spazzatura e la barbarie conquistano spazio».

Lei ha parlato di umanesimo a proposito della difesa del paesaggio: in che senso?


«Perché se io guardo queste colline, vedo il lavoro di nonni e bisnonni ma anche la presenza delle generazioni future. Intuisco la radice concreta delle cose e la suggestione visionaria di chi esplora nuovi territori. Questo è umanesimo».

Servirebbero le ruspe anche in certe nostre periferie? Oppure per abbattere il delirio di alcuni architetti comunali?


«La periferia ha senso quando diventa un luogo di riti collettivi, di lavoro e di cultura, insomma di vita. Anche lì, le pietre magari orrende contengono esistenze e uomini. Abbattere e basta, come a un certo punto decisero i francesi, ad esempio in alcune zone di Lione, non è l'unica soluzione. Io sono più per la trasformazione anche degli errori nel cuore delle città. Niente è irreparabile, in architettura».

Quando comincia a saltare l'equilibrio?


«Con una piccola svista iniziale, basta pochissimo. La reazione a catena che ne consegue può essere devastante».

C'è questa parola, leggerezza, di cui oggi si fa grande uso e forse abuso: cos'è, per lei?


«E' la fatica di vincere la legge più pesante di tutte, cioè la gravità. Mi batto contro la sua severità anche se uso materiali per loro natura pesantissimi, dunque non è facile. Ma sono molto cocciuto, anzi è questa la mia prima virtù».

Nel Roero hanno inventato uno slogan interessante: «Lasciare libero il paesaggio», e segnalano il bello prima di denunciare il brutto. Come si può tradurre questo principio in realtà?


«Con l'emulazione. L'idea di un premio in difesa del paesaggio è davvero giusta, perché può essere applicata ovunque. Sogno un'Italia di enti pubblici e privati, amministrazioni comunali e persone che facciano a gara per cercare la bellezza, per riconquistarla, se necessario anche pagandola in contanti, e così sottraendola ai barbari».




In che modo realmente la pianificazione urbana può contribuire a creare community spirit e inclusione a livello locale?

E’ una domanda molto complessa. Può riuscirci attraverso un approccio legato alla crescita. Che le città debbano crescere, trasformandosi e mutandosi, è sicuro: basta che smettano di crescere dilagando, esplodendo, creando nuove periferie. Questo è per cominciare, così almeno si tiene l'energia lì, almeno all’inizio, per non buttarla tutta fuori. L’idea di implosione ha a che fare con questa immagine, significa guardare dentro, completarsi dall’interno. È in questo momento poi che comincia il bello, sennò l’energia si disperde. A questo punto si parla di trasporto pubblico, smetterla coi parcheggi.
Quali sono gli altri elementi di questo mix necessario per non disperdere le energie urbane?

Bisogna fecondare le città con delle attività culturali, che sono anche disperse ma rappresentano luoghi fondamentali di civiltà di incontro e di scambio. Ha a che fare con l’energia, i consumi delle città, con la spazzatura e con tutte le altre mille cose che a questo punto vengono fuori. Il punto da cui cominciare è che non bisogna più disperdere l’energia.
In che modo la città europea può influenzare la città mondiale soprattutto in un momento di crisi?

Fortemente, soprattutto in un momento di crisi perché la città europea possiede queste caratteristiche a cui ho accennato e le possiede molto forti. Una città come New York ad esempio ha queste caratteristiche ma non le possiede in maniera così chiara e limpida. Costruire ad esempio il nuovo campus della Columbia University ad Harlem, con un fenomeno di gentrification, con la trasformazione di Harlem in qualcosa di diverso, è comunque un progetto di urbanità, di urbanizzazione perché la Columbia University è un centro di ricerca, piena di giovani, non ha un centro commerciale.
Cosa insegna al mondo la città europea?

La città europea insegna a non specializzare i pezzi di città, insegna soprattutto a non fare città solo per lo shopping o solo per gli affari ma a mescolare le diverse funzioni.

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